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  • Immagine del redattoreAle Mazzarello

Tu chiamale se vuoi...emozioni.

Tu chiamale se vuoi...emozioni cantava l'immenso Lucio Battisti, poeta straordinario.

Da anni mi occupo di sport. Prima come "giocatore", da qualche anno come coach (ho spiegato in un precedente articolo perchè mi senta tale e non un allenatore), e da ultimo ho iniziato un percorso come studioso e "formatore" (senza dimenticarmi mai che "so di non sapere" e quindi lo studente sarà sempre lo status che mi definirà per l'eternità).

La vita è un cammino strano, spesso impervio e tortuoso.

Da tempo ci sto scrivendo un libro, che, spero, prima o poi trovi il suo capitolo finale.

Ebbene, in questo strano viaggio, proprio scavando dentro me stesso alla ricerca di verità nascoste, ho capito che esiste in tutto un file rouge che collega il principio alla fine, che, inevitabilmente verrà.

Sono le emozioni la presenza costante della mia vita.

Emozioni spesso contrastanti.

In questi ultimi giorni il mio cammino si è arricchito di una nuova pagina, avendo intrapreso, se pur momentaneamente, la professione di docente.

Così, mentre giro trai banchi, vado alla ricerca di emozioni, anzi per meglio dire di scambi di emozioni.

E, tornando a casa, mi chiedo quanto sia stato bravo a suscitare nei miei alunni, per altro molto piccoli, emozioni. Soprattutto mi piacciono le emozioni che sono loro a dare a me.

Come ho detto ad un amico, non sono andato ad insegnare, bensì ad imparare.

L'insegnamento deve basarsi sulle emozioni.

Non ne ho dubbio alcuno.

La maggior parte delle teorie odierne definiscono le emozioni, o meglio le esperienze emotive, come un processo (e non come uno stato) multicomponenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve. Tale struttura multicomponenziale differenzia le emozioni da altri fenomeni psicologici (come ad esempio le percezioni o i pensieri).

E’ fondamentale sottolineare che parte dell’esperienza emotiva è anche un antecedente emotigeno (o evento emotigeno) che la innesca: gli antecendenti emotigeni possono essere di varia natura, compresi gli eventi interni, come ad esempio un ricordo, un pensiero o un’immagine mentale.

Le emozioni sono il segnale che vi è stato un cambiamento, nello stato del mondo interno o esterno, soggettivamente percepito come saliente. Le altre componenti che costituiscono le emozioni sono: la valutazione cognitiva (o appraisal) da parte dell’individuo di un determinato antecedente emotigeno, l’attivazione fisiologica (o arousal) dell’organismo (ad esempio, variazioni nella frequenza cardiaca e e respiratoria, sudorazione, pallore, rossore, etc.), le espressioni verbali (e ad esempio il lessico emotivo) e non verbali (espressioni facciali, postura, gesti, etc.), la tendenza all’azione e infine il comportamento vero e proprio, generalmente finalizzato a mantenere o modificare il rapporto transazionale in corso tra individuo e ambiente.

Tra le componenti dell’esperienza emotiva ritroviamo anche la tonalità edonica (o valenza edonica) che si riferisce alla piacevolezza o spiacevolezza dell’esperienza emotiva (valenza edonica positiva vs. negativa) per il soggetto che la sta provando.

In particolare la valutazione cognitiva dell’antecedente emotigeno induce un cambiamento in termini di tendenza all’azione che si accompagna a variazioni nell’attivazione fisiologica e nelle risposte espressive, traducendosi in specifiche risposte comportamentali.

In termini di decorso temporale è importante sottolineare che le emozioni non sono stati, bensì processi in continua evoluzione. Il decorso temporale delle emozioni può essere estremamente differente: in alcuni casi le emozioni hanno un chiaro inizio e una chiara fine, con una intensità stabile nell’arco temporale; in altri casi è più difficile definire in modo preciso il decorso temporale poichè presentano un pattern maggiormente discontinuo e fluttuante anche in termini di intensità.

Spesso la credenza comune vede l’ emozione come in contrapposizione dicotomica alla cognizione: tuttavia dagli anni ’50 la maggior parte degli approcci teorici alle emozioni evidenziano come la cognizione sia interdipendente e parte stessa del processo emotivo. La variabilità delle esperienze emotive è quindi dovuta anche alla variabilità del complesso processo multidimensionale di tale valutazione cognitiva. Ciò non significa che le emozioni insorgano sempre in base a cognizioni analitiche e a ragionamenti complessi; spesso vi possono essere valutazioni molto veloci e quasi automatiche della situazione emotigena trigger. Di seguito verranno approfondite alcune delle emozioni generalmente provate nella vita quotidiana.

Quali sono le emozioni? Tristezza, paura (ha spesso come correlazione l'ansia), l'emozione della colpa (Izzard la definisce una emozione complessa), la vergogna, che ancora Izzard definisce complessa perchè deve essere appresa e implica un legame diretto con le norme sociali. Spesso, erroneamente, si associa alla vergogna una valenza negativa, ma in vero così non è. Ha un forte potere adattivo e protettivo nei confronti dell'integrità personale. La vergogna organizza e conserva il sè che si forma con le esperienze intersoggettive.

E' la emozione più complessa, che sfocia spesso in disturbi della personalità.

È opportuno sottolineare che vergogna e senso di colpa, pur presentando una serie di somiglianze, sono due emozioni profondamente diverse. Una condizione tipica di vergogna vede la persona concentrarsi principalmente sulla condizione del sé personale, con la percezione dolorosa di un sé negativo. Si insinua, così, la sensazione di sentirsi una persona incompetente e cattiva, accompagnata da un senso di restringimento, quasi a sentirsi più piccoli, inutili e deboli. Un elemento molto interessante che riguarda la vergogna riguarda la presenza o meno di altre persone, infatti, si è visto che affinché si manifesti un sentimento di vergogna non è necessario che la situazione coinvolga osservatori esterni, questo accade perché il soggetto si trova a raffigurarsi mentalmente un pubblico immaginario, e grazie alla finta presenza di altre persone il sentimento di vergogna si genera ugualmente, anche in circostanze di solitudine.

Di contro una tipica situazione di senso di colpa è meno dolorosa e penosa del sentimento di vergogna, quest’emozione riguarda generalmente qualcosa che va oltre il proprio sé, si può affermare, infatti, che il sentimento di colpa riguarda la valutazione negativa di uno specifico comportamento verso un’altra persona, perciò il proprio sé non viene incluso nella sofferenza emotiva del soggetto, ciò non avviene quando nel soggetto si vengono a creare sentimenti di vergogna. Il senso di colpa genera soprattutto situazioni di rimorso e rimpianto in riferimento al comportamento precedentemente messo in atto, con un conseguente stato di tensione.

È quindi evidente come vergogna e colpa siano due stati affettivi simili, ma non sovrapponibili, in quanto le diversità sono evidentemente molteplici. Da ultima vi è la rabbia; è un’emozione definita da diversi autori come innata e basilare, infatti, è tra i primi affetti a formarsi, inizia a delinearsi presto nel bambino, tra i 3 e gli 8 mesi.

La rabbia è un’emozione provocata da una moltitudine di eventi e genera un impulso all’azione aggressiva verso la fonte che provoca questo sentimento, generalmente, però, le persone tendono a reprimere l’impulso ad aggredire che percepiscono, è per questo motivo che la rabbia è considerata una sensazione principalmente interna, che le persone non esprimono necessariamente con un comportamento reale. Apparentemente la rabbia si manifesta quando le persone percepiscono una minaccia nei confronti di qualcosa che ritengono appartenente a loro, anche la perdita di status o di autostima può innescare questo sentimento, si è così notato che l’aggressione verso gli altri e al contempo l’aggressione verso se stessi sono entrambe manifestazioni di rabbia. Ovviamente anche la rabbia, come tutte le altre emozioni, ha una funzione adattiva, infatti, spinge la persona all’azione quando è minacciata da qualcosa.

A livello cognitivo, affinché si generi l’emozione di rabbia, la situazione viene analizzata nella corteccia frontotemporale, successivamente si ha l’attivazione del sistema limbico, in particolar modo del nucleo centrale dell’amigdala, come risultato di questo processo si ha la produzione di noradrenalina e adrenalina nel sangue da parte del midollo surrenale. A questo punto aumentano anche i livelli di glucosio nel sangue, per aiutare l’individuo a prepararsi all’attacco. Il ruolo dell’amigdala nella creazione dei comportamenti aggressivi è stato dimostrato con alcuni esperimenti su animali, ai quali veniva asportata questa porzione di cervello; questi dopo l’asportazione manifestavano una diminuzione dei comportamenti aggressivi.

Bene, capite e analizzate, se pur per sommi capi, quali siano le emozioni, per chi ha la pretesa di essere una guida, sia che nel campo sportivo, che in quello scolastico, è indispensabile capire e avere consapevolezza che i nostri atteggiamenti, più ancora delle nostre parole, generano emozioni e queste saranno determinanti, per ottenere il meglio dai nostri gjocatori o dai nostri studenti.

È capitato a tutti di avere a che fare con insegnanti che non godevano di una sana gestione delle emozioni. Maestri conflittuali con gli alunni, professori carenti di empatia o che punivano senza ragione. Talvolta possono arrivare addirittura allo scontro con gli studenti.

La gestione delle emozioni degli insegnanti riguarda la loro capacità di controllo emotiva. È un’abilità che poche volte ci viene insegnata. Purtroppo, infatti, viene data molta importanza ai concetti, ma non alla loro applicazione.

Quando parlo di maestri e professori, possiamo, anzi dobbiamo pensare e fare un doveroso parallelismo anche agli allenatori della attività di base (che dovrebbero avere ancora maggiore competenza della materia psicologica e pedagogica) e degli allenatori del settore giovanile.

Per gestire la dimensione emotiva di un gruppo di alunni è necessario saper gestire prima le proprie. Quando entra in aula, o in un campo da calcio, in una piscina, in una palestra, l’insegnante non si trasforma in una macchina. Non lascia le sue emozioni fuori la porta della classe. Le lezioni sono fatte non anche, ma soprattutto di emozioni, come lo è il piacere di insegnare.

D’altra parte, molti alunni lasciano gli studi, o molti atleti lo sport, proprio perché l’insegnante, o allenatore, ha esaurito la gioia e il piacere di insegnare. L’influenza dei docenti è tale da influire in modo positivo o negativo sugli alunni. Una corretta gestione delle emozioni ha dunque conseguenze positive su tutto il gruppo.

Per capire bene di cosa stia provando a parlare uso uno studio sul mondo scolastico, ma che si adatta alla perfezione, al mondo sportivo e nello specifico a quello del gioco del calcio.

Esistono cinque competenze di base per aiutare gli insegnanti a gestire le emozioni. Per presentarle, abbiamo scelto l’organizzazione creata da Peter Salovey.

  • Autoconoscenza: è importante conoscere le proprie emozioni e sapere come influiscono sui pensieri e le azioni. Ciò permette di migliorare e acquisire maggiore coscienza.

  • Controllo emotivo: permette di dominare l’impulsività. Consente di gestire una situazione stressante o un momento di caos in classe.

  • Capacità di motivazione: aiuta a motivarci e, di conseguenza, a motivare anche gli altri.

  • Empatia: consente di sintonizzarsi con gli alunni e capirli. A volte uno studente svogliato nasconde una situazione familiare difficile.

  • Abilità sociali e di leadership: facilitano un’interazione efficace con il gruppo. In questo modo il professore è vicino a loro, ma mantiene il suo ruolo di leader.

Saper gestire le proprie emozioni permette agli insegnanti di godere di diverse risorse per affrontare determinate situazioni. In caso di stress, le azioni poste in atto possono ripercuotersi positivamente sull’apprendimento di tutta la classe. Questo perché il docente è in grado di evitare i disturbi provocati dallo stress o dall’ansia.

Inoltre, si impara ad affrontare nuove sfide. Ad esempio: una classe conflittuale, troppo affollata, la mancanza di motivazione allo studio…

Viviamo in una società in cui è necessaria un’educazione ai valori. Lo studente deve sentire l’insegnante (allenatore) vicino, sapere che lo capisce. I professori hanno un’enorme influenza, ma a volte non ne sono coscienti.

È risaputo che la professione degli insegnanti non è semplice. Le lezioni, gli studenti e l’ansia d’arrivare ovunque causano un senso di oppressione. Ma ricordiamoci che fino a pochi anni fa anche noi eravamo seduti a quei banchi di scuola. E anche noi, a volte, abbiamo pensato: “nessuno mi capisce”.

In quella situazione, lo sguardo accondiscendente del professore (o allenatore) non era di nostro interesse. Invece, sarebbe stato bello che si fosse avvicinato a noi, al termine della lezione, per dirci una parola di conforto o farci sentire speciali. E, soprattutto, sapere che non aveva dimenticato quando anche lui sedeva ai banchi di scuola.

Oggi nelle aule o sui campi da calcio si assiste spesso ad un fenomeno che la psicologia chiama burnout .

Letteralmente il termine burnout significa bruciato, fuso, logorato. Christina Maslach e Jackson (1981) ha studiato gli aspetti emotivi di questa sindrome individuando in essa tre dimensioni implicate sia a livello individuale che situazionale: l’esaurimento emotivo, caratterizzato da saturazione emotiva, da incapacità ad accogliere emozioni nuove; la depersonalizzazione, cioè allontanamento dalla relazione con l’altro;  la (ridotta) realizzazione professionale, che riguarda il sentimento di efficacia del proprio lavoro, di competenza e di autostima.

Originariamente questa sindrome veniva utilizzata per descrivere lo stato di sofferenza in cui potevano trovarsi i lavoratori di categorie professionali che operavano all’interno di contesti sanitari a contatto con specifiche difficoltà legate alla cura e all’aiuto. Attualmente, il termine descrive anche lo stato di malessere, prevalentemente emotivo, che può caratterizzare la professione insegnante. In effetti, questa professione è cambiata nel corso del tempo anche grazie alle continue e sempre più complesse richieste che vengono poste dalla società all' insegnante.

Oggi, infatti, non sono richieste solo conoscenze che si limitano alla didattica, alla disciplina e alla gestione della classe ma sono necessarie competenze emotivo-relazionali verso tutti gli attori alla vita scolastica (Albanese et al., 2007). Secondo Chan (2007) il burnout potrebbe avere delle conseguenze potenzialmente gravi non solo sulla carriera degli insegnanti ma anche sulla relazione educativa che essi instaurano con gli alunni. In una recente ricerca su 787 insegnanti svizzeri Genoud, Brodard e Reicherts (2009) hanno messo in evidenza il circolo vizioso che può nascere quando un insegnante in burnout si trova a dover gestire alunni che manifestano comportamenti oppositivi e antisociali. In questi casi, lo stress degli insegnanti aumenta il rischio per gli alunni di ricevere reazioni altrettanto violente e aggressive, altamente diseducative per il loro sviluppo. I risultati di uno studio condotto da Kokkinos, Panayiotou e Davazoglou (2005) si muovono nella stessa direzione: gli insegnanti con esaurimento professionale rinforzano i comportamenti antisociali e provocatori dei propri alunni.

Inoltre, la motivazione all’apprendimento degli alunni è connessa, in maniera circolare e reciproca, al grado di percezione che essi stessi hanno del benessere dei propri insegnanti (Evers, Tomic e Brouwers, 2004). Come efficacemente afferma Pines: «Lack of interest in learning on the part of students, talking, shouting and lack of attention in class cause burnout because they let teachers know that they have failed as educators » (Pines, 2002; p. 122).

Dunque, il burnout non solo è in parte predetto dai comportamenti scorretti degli alunni « Classroom discipline is a well-documented source of teacher stress » (Kokkinos, 2006; p. 239), ma il suo persistere nella vita professionale degli insegnanti causa anche una più difficile gestione degli atteggiamenti problematici degli allievi. Van Der Doef e Maes (2002) ritengono che l’aggressività degli alunni sia un correlato importante per la salute ed il benessere degli insegnanti. Bisogna, quindi, essere in grado di costruire relazioni significative con gli alunni, con i colleghi, con i genitori degli allievi, il dirigente, etc. Da esse dipende oltre che la riuscita positiva del processo educativo, anche il benessere personale e professionale di chi insegna. Queste abilità mettono in luce la dimensione relazionale del ruolo di insegnante facendo collocare questa professione tra le helping professions, ovvero professioni basate sulla relazione d’aiuto (come ad esempio quelle degli infermieri, dei medici, degli psicologi), a contatto con la sofferenza e sottoposte ad eventi continui di stress.

Saarni (1999) definiva la competenza emotiva proprio come la capacità di comprendere le proprie e altrui emozioni, di regolarle e controllarle e di utilizzarle al meglio sia nei processi cognitivi che nelle interazioni sociali. La capacità di gestire tali situazioni, di saper mediare nelle situazioni difficili (Mayer, Salovey e Caruso, 2004) può costituire un possibile fattore di protezione rispetto al burnout e contribuire a ristabilire un equilibrio nella relazioni insegnante-allievo. Dal punto di vista emotivo-relazionale, infatti, l’alto livello di esaurimento professionale dell’insegnante rischia di causare un minor investimento delle proprie emozioni e di conseguenza provocare l’aumento del rischio di compromissione del rapporto con i propri allievi. Lo stile di ciascun insegnante nel gestire ed esprimere le emozioni influenza profondamente la qualità della relazione che instaura con gli allievi (Pianta, 2001).

Doudin et al. (2009) in uno studio sulla competenza emotiva degli insegnanti hanno mostrato che docenti con bassi livelli di burnout regolano positivamente le loro emozioni; al contrario, alti livelli di burnout, in particolare rispetto alla dimensione della depersonalizzazione e al distacco dalle relazioni, regolano meno bene le proprie emozioni.

Per gli insegnanti creare relazioni positive è, quindi, una competenza emotiva rilevante, essa contribuisce allo sviluppo di fattori di compensazione per il proprio benessere. La letteratura sul burnout, inoltre, ha dato molta attenzione all’incidenza dei fattori individuali sull’insorgenza della sindrome (Sirigatti e Stefanile, 1993). Gli anni di servizio sembrano collegarsi in modo significativo all’esordio del burnout, anche se non tutte le ricerche concordano sulla direzione di questa relazione.

Un recente studio condotto da Gavish et Friedman (2010) su insegnanti novizi ha rilevato alti livelli di burnout, poca integrazione nell’ambiente lavorativo durante i primi anni di insegnamento e poca soddisfazione del supporto ricevuto dai dirigenti, dai colleghi e dai genitori degli alunni. Secondo altri studi, che si muovono nella stessa direzione, le persone con più anni di insegnamento sono maggiormente sensibili all’insorgenza del burnout e meno soddisfatti. Tuttavia, come detto poc’anzi, l’incidenza degli anni di insegnamento sui livelli di esaurimento professionale non è sempre accertata; alcuni studi, infatti, rilevano l’indipendenza di questi fattori. Numerose ricerche hanno dimostrato, inoltre, che la condizione di sofferenza emotiva degli insegnanti si presenta in culture anche molto diverse tra loro, seppur con manifestazioni dissimili (per una rassegna si veda Fiorilli et al., 2015).

In casi estremi, come rilevato in uno studio di Leung e Lee (2006) condotto su insegnanti di Hong Kong, gli alti livelli di esaurimento emotivo sono predittori di abbandono della professione. Chang (2009) in una recente rassegna sull’argomento ha riportato che negli USA, più del 25% degli insegnanti lascia il posto di lavoro all’inizio del terzo anno di carriera e più del 40% lascia questa professione entro i primi cinque anni di insegnamento. Tali dati non sono confermati in Italia ma ciò costituisce, in un certo senso, un aggravamento della situazione. L’insegnante italiano, poco motivato a lasciare un lavoro che seppur a volte insoddisfacente può garantire una situazione retributiva costante, rimarrà nel contesto educativo in una situazione di sofferenza e di difficoltà.

Un possibile fattore di protezione per evitare il burnout dei docenti e diminuirne il rischio di impatto negativo sugli alunni potrebbe essere lo sviluppo di relazioni educative significative con i propri colleghi.

Qui entra in gioco, nello sport il Direttore del Settore Giovanile, nella scuola il Dirigente Scolastico.

Hanno la conoscenza, la competenza, per capire che l'ambiente di lavoro deve essere e sentirsi parte di un tutto, di lavoro di team, di motivazione circolare?

Avere un sentimento di esaurimento emotivo, secondo quanto misurato da questa scala, riguarda il senso di affaticamento e la sensazione di non poter andare avanti perché manca l’energia emotiva per affrontare il proprio lavoro. In particolare, quando l’insegnante si sente esaurito vive le relazioni con grande difficoltà e prova logoramento anche a livello fisico. Una tale sensazione è tanto più grave se si considera che per la professione insegnante la componente emotiva è una dimensione ineludibile nella relazione educativa. Si rischia di minare l’apprendimento degli alunni se il docente manifesta emozioni negative, come lo sconforto, la tristezza e la fatica di affrontare una nuova giornata di lavoro.

Quanti allenatori con un atteggiamento decisamente sbagliato vediamo sui campi di calcio?

Seguendo questo ragionamento possiamo leggere l’isolamento accusato dai nostri insegnanti come un fattore trasversale alle tre categorie sopra esposte. Sono implicati i fattori personali e sociali, in quanto questi insegnanti escludono la presenza significativa e di sostegno di un entourage privato a cui riferirsi in situazioni di difficoltà. Ancora, sono implicati i fattori squisitamente relazionali di tipo professionale, perché i docenti non indicano colleghi o esperti nella rete di supporto. Infine, sono presenti fattori di tipo organizzativo, in quanto possiamo immaginare che il contesto in cui questi insegnanti operano non offra loro efficaci reti di supporto a causa di problemi strutturali interni ad esso. In sintesi, quando rileviamo un dato di questo tipo, e cioè un insegnante senza una rete di supporto sociale, possiamo aprire molte finestre interpretative e supporre la presenza di più implicazioni a diversi livelli di profondità. Un discorso che rimane particolarmente utile quando si intende affrontare la questione in termini di intervento per ridurre questo fattore di rischio e su cui torneremo in seguito.

Una seconda linea interpretativa al dato significativo che emerge nel nostro studio è quella che vede l’isolamento degli insegnanti in burnout non come fattore di causa ma come effetto di uno stato di malessere. Cooper, Dewe e O’Driscoll (2001) in uno studio condotto su un campione di 2600 dirigenti scolastici avevano individuato tre possibili strategie adottate di fronte allo stress professionale. L’impiego di strategie direttive che hanno l’obiettivo di affrontare e tentare di risolvere le situazioni difficili; l’uso di strategie diversive, vale a dire azioni che consentono al soggetto di allontanarsi dalla situazione fonte di disagio assumendo un atteggiamento freddo e distaccato rispetto al contesto, come l’impiego di strategie di fuga o di vero e proprio abbandono del contesto di lavoro; ed infine, l’uso di strategie palliative, come l’assunzione di sostanze del tipo caffè, fumo, alcool e farmaci. In questo possibile scenario interpretativo l’insegnante che dichiara di non avere una rete di sostegno, né scolastica né extra-scolastica, adotta una strategia di ritiro e di disimpegno, diversiva rispetto alla possibilità di cercare soluzioni costruttive.

Ampliare lo spettro delle possibili interpretazioni sulle cause e sulle conseguenze dello stress emotivo degli insegnanti aiuta a immaginare i possibili interventi da intraprendere per aiutare questa categoria professionale. Sia che l’assenza di rete di sostegno sociale, scolastica o extra-scolastica, rappresenti una causa o piuttosto una conseguenza del burnout, è di sicuro un campanello d’allarme, un segnale forte di malessere che, come detto nell’introduzione, ha delle notevoli implicazioni sulla vita scolastica anche degli alunni.

Dal nostro punto di vista, una possibilità di intervento rimane quella della formazione degli insegnanti. In particolare, sembra sempre più necessario mettere gli insegnanti nella condizione di rilevare il malessere a livello emotivo agendo su due fronti: conoscere e riconoscere i segnali di disagio; intervenire a livello organizzativo aiutando il dirigente scolastico affinché possa costruire reti di sostegno agli insegnanti favorendo un clima di collaborazione e condivisione.

Leggendo questi studi mi viene in mente una frase che spesso si sente, ossia che "l'allenatore è un uomo solo".

Probabilmente la frase è vera, come è solo un insegnante, ma perchè è "sbagliato" il contesto che gli ruota intorno.

Mandiamo in campo e nelle aule persone che non sono preparate dal punto di vista psicologico.

Il non sapere gestire le proprie emozioni e il non "capire" che chi abbiamo davanti è un emettitore di emozioni, crea un conflitto di emozioni che può provocare un cortocircuito letale e pericoloso.

Per capire ancora meglio ho trovato un interessante studio che vi allego per intero:

Dobbiamo per questo essere però bravi a riconoscere le emozioni e a controllarle e a gestirle.

In filosofia sono state relegate ad una questione avversa, spesso in contrapposizione con la ragione e viste quasi sempre con accezioni negative.

Questo perchè se non veicolate in modo corretto possono essere "pericolose".

Quanto scritto lungamente in precedenza, tuttavia, non significa che le emozioni abbiano sempre e comunque una valenza positiva: esse vanno riconosciute e gestite, altrimenti il rischio è che prendano il sopravvento. Emozioni come la rabbia e la paura possono, infatti, offuscare la nostra mente e dare luogo a quello che Goleman chiama “sequestro emotivo”, cioè quella situazione in cui gli stimoli esterni, anziché essere elaborati dalla corteccia, arrivano direttamente all’amigdala che provoca reazioni immediate e istintive, spesso incontrollate perché la mente smette di ragionare con lucidità.

Ecco, dunque, che la razionalità umana può essere sopraffatta e “catturata” dalle emozioni che prendono il controllo del nostro agire; questo è esattamente il motivo per cui la tradizione filosofica le ha sempre guardate con sospetto e colpevolizzate.

Tuttavia per Goleman, come già per Aristotele 24 secoli prima di lui, le emozioni possono – anzi devono – essere controllate: infatti noi non siamo responsabili dei nostri sentimenti, ma abbiamo piena responsabilità del modo in cui decidiamo di esprimerli.

Ecco che la gestione delle emozioni diventa una delle competenze principali del modello dell’intelligenza emotiva, definita come “La capacità di controllare sentimenti ed emozioni proprie ed altrui, distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni.”.

Tale capacità, fortunatamente, non è innata e data una volta per tutte alla nascita. Nel pensiero di Goleman, essa non è altro che un insieme di competenze – 25 per l’esattezza – che possono essere acquisite con l’allenamento, la pratica, la costanza e la pazienza.

Per approfondire la conoscenza delle emozioni e voler capirne la portata anche dal punto di vista filosofico vi invito a leggere un bellissimo contributo:

Nella speranza che si capisca quanto si ampia la sfera infinita delle conoscenze per chi vuole approcciarsi al mestiere di insegnante e allenatore, vi ringrazio per la attenzione.


Ale Mazzarello









Bibliografia



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